Il mercato del falso online vale 1.700 miliardi l’anno: che impatto ha su ognuno di noi?

Dove ci porta la corsa al prezzo più basso

Comprare online è molto comodo, ma soprattutto possiamo cercare, di qualunque prodotto, quello che costa meno, certi di trovarlo. Spesso è un prodotto contraffatto made in China, venduto sulle piattaforme Alibaba, il gigante dell’e-commerce con quasi 60.000 impiegati e che in borsa vale 450 miliardi di dollari. Ogni giorno, e solo in Cina, consegna 30 milioni di pacchi e processa 832 milioni di ordini. Sulla sua piattaforma si compra tutto: dall’abbigliamento all’agroalimentare, ai pezzi di ricambio, agli articoli per la casa, ai farmaci, all’elettronica.

Su Internet la Cina è il mondo perché, con Dhl, spedisce i prodotti, uno per uno, ovunque nel mondo. Le dogane raramente controllano il singolo pacchetto con un paio di scarpe, un farmaco, un frullatore, o un auricolare; in molti Paesi le regole non impongono il controllo o sequestro di un pacco su cui c’è scritto «per uso personale». Questo vuol dire che se il fenomeno non lo fermi in Cina, non lo fermi più. Come se ne esce?

Come si difendono le imprese dalla contraffazione?
Oggi funziona così: sulle piattaforme, dove ogni giorno approdano migliaia di nuovi venditori, nessuno è obbligato a mostrare la licenza per vendere un certo prodotto. E allora come si difende, per esempio, l’imprenditore veneto, quando si accorge che qualcuno sta vendendo le sue scarpe a un prezzo stracciato? Può lamentarsi con Alibaba, e, se è in grado di indicare lo specifico venditore, magari quell’offerta viene tolta dalla piattaforma, per ricomparire probabilmente dopo due settimane. Oppure può rivolgersi all’autorità cinese (Amministrazione per l’Industria e il Commercio), che di solito risponde: «Cercati un investigatore e trova la fabbrica dove producono le scarpe contraffatte; dopo noi interveniamo».

In pratica, se quel marchio non lo hai registrato in Cina, è impossibile far rimuovere la pubblicità dalle piattaforme, mentre è probabile che lo stesso marchio lo abbia registrato qualcun altro, visto che i cinesi conoscono in tempo reale ogni brand esistente sul mercato internazionale. Solo ai titolari degli shop online sulla piattaforma Alibaba è richiesta la registrazione in Cina, con una burocrazia che richiede quasi 2 anni.

Perché i pirati la fanno franca?
La legge non è chiara, nemmeno per gli avvocati, e alla fine ai proprietari dei marchi non conviene fare causa per almeno 3 motivi:

1) i risarcimenti sono bassi;

2) Alibaba ha enormi risorse e grandi avvocati, che hanno una grossa influenza sui Tribunali locali;

3) di solito le aziende stesse vogliono fare affari attraverso il gruppo Alibaba e, se lo denunci, diventa più difficile.

Lo scorso giugno, a Detroit, alla presenza di centinaia di imprenditori, il capo di Alibaba, Jack Ma, ha ammesso: «La contraffazione è il nostro cancro». Ogni tanto annuncia la chiusura di qualche migliaio di negozi virtuali, estromette qualche centinaio di operatori, e chiede ai grandi marchi: «Sbarcate qui, perché io voglio un mercato pulito»! Ad agosto ha siglato un accordo con il colosso del lusso Kering, fondato dall’imprenditore francese François-Henry Pinault. Da parte sua il gruppo, proprietario di marchi del lusso come Gucci, Saint Laurent e Bottega Veneta, ha ritirato le accuse contro Alibaba presentate presso la corte di New York. Apprezzabile buona volontà, che non sposta il problema di un millimetro, perché chi deve intervenire è il Governo cinese, che da una parte dichiara a gran voce di voler proteggere le imprese straniere, ma in anticamera dice: «Non diamo troppa protezione ai brand, altrimenti salta tutta l’industria del falso e Alibaba porta 12 milioni di posti di lavoro».

Ne è la prova il fatto che, da 5 anni, in Cina stanno elaborando una legge sull’e-commerce, e nell’ultima bozza c’è scritto: «Di fronte a una segnalazione di contraffazione, se il venditore garantisce che non è vero e ne produce documentazione (a sua volta falsa, ndr), nessuno va in tribunale». Una norma che, per le piattaforme, non prevede alcuna responsabilità, né l’obbligo di approfondire le prove. E il problema non è solo Alibaba: mentre navighi su internet ti compare la pubblicità di un prodotto, cliccando finisci in un sito, una e-mail, un social media o WhatsApp, dove puoi acquistare quello stesso prodotto (falso).

Quanto vale il mercato del falso?
Il valore del falso ammontava nel 2016 a 1,7 trilioni di dollari, e nei prossimi 5 anni è stimata una crescita del 70%. Diventa sempre più normale il pagamento in bitcoin, anche se Alibaba oggi non li accetta… non ancora. Si dice: «Segui i soldi, e arriverai al ladro». Ma, con i bitcoin cosa segui?

Ricadute sociali
Il consumatore, cercando per ogni prodotto il prezzo più basso, alimenta di fatto la produzione parallela del falso: dalle medicine ai ricambi delle automobili, fino all’elettronica. Il 99% dei ricambi e adattatori per iPhone non è sicuro. Le piccole e medie imprese italiane trovano i loro marchi dappertutto, da 1688.com (la piattaforma che vende all’ingrosso, ma dove possono comprare anche i consumatori retail) a Taobao o altre piattaforme Alibaba. Ci sono i grandi produttori che da anni vendono per esempio zaini per i millennial, dichiarano anche il fatturato, ed è tutta roba contraffatta. Nessuno alza un dito, proprio perché c’è la percezione che sia inutile, complicato e costoso.

E allora come fanno a sopravvivere le nostre piccole e medie aziende, se devono competere con la contraffazione, il mercato nero e i software delle piattaforme che danno la priorità agli articoli che costano meno? Hanno una sola strada: quella di abbassare a loro volta i prezzi. Il che significa abbassare gli stipendi, e ridurre al minimo i contributi e i diritti, quelli a fatica conquistati: le ferie, la malattia, la maternità. Si esce dal territorio sano della libera concorrenza, per entrare in quello malato del dumping sociale.

Responsabilità del Governo cinese
Se i controlli non partono dalla Cina, non c’è speranza di arrestare la contraffazione globale e la più alta responsabilità è proprio del Governo cinese, che dovrebbe introdurre norme chiare ed efficaci per la protezione di tutti i brand e la sicurezza del consumatore, e anche tassare i profitti delle vendite online. Chi ha la forza di imporre un cambio di rotta sono anche i titolari dei grandi marchi mondiali e le associazioni di categoria, che invece di pensare ognuno per sé (nel timore di ritorsioni o di cattiva pubblicità), dovrebbero investire in una ricerca seria sull’impatto economico e sociale; e poi fare attività di lobbying sui propri governi, spingendoli a fare pressioni sul governo cinese.

In tutto il mondo occidentale chiudono i centri commerciali, chiudono i negozi e i governi puntano allo sviluppo dell’e-commerce, dove naturalmente non si vende solo il falso, ma salta ogni intermediazione, per favorire la semplificazione. E a furia di semplificare… abbiamo semplificato! Nessuno paga le tasse doganali. Quelle restano in capo alle aziende locali, che investono in prodotti e creano posti di lavoro, ma che poi vengono lasciate sole e inermi di fronte ai pirati.

Come e dove si espande Alibaba
Le previsioni di crescita di Alibaba sono enormi: conta di capitalizzare 1.000 miliardi di dollari entro il 2020, battendo Apple, Alphabet , Amazon, Facebook, Tencent. Il suo fondatore Jack Ma ha dichiarato a Newsweek : «La Cina è cambiata grazie a noi negli ultimi 15 anni. Ora speriamo che il mondo cambi grazie a noi nei prossimi 15». Il colosso sta facendo acquisizioni e investimenti in tutti i settori e in tutto il mondo: dalle società che si occupano di distribuzione a catene di negozi e supermercati, dalla stampa ai media, dalle lotterie, allo sport, ai servizi sanitari.

Se riuscirà a comprare anche una compagnia di servizi di pagamento (come la Western Union per esempio), sarà più facile costruire una piattaforma fuori dalla Cina, aprendo così le porte ad una ben maggior vendita internazionale di prodotti contraffatti. Da un giorno all’altro le cose potrebbero andare 10 volte peggio. Il Governo americano ha appena rifiutato la richiesta di Alibaba di comprare MoneyGram. Grazie a Trump, onestamente.

Cosa restituisce Alibaba alla società?
Secondo Jack Ma, l’evasione fiscale non solo è illegale, ma soprattutto immorale ed ha dichiarato che ogni impresa deve pagare la sua parte attraverso le tasse, visto che le aziende possono lavorare solo grazie all’infrastruttura pagata dai cittadini. Quindi, quanto paga questo colosso in tasse? Secondo il South China Morning Post, giornale posseduto da Alibaba, il gigante di e-commerce e la sua affiliata finanziaria Ant Financial hanno pagato, nel 2016, un totale di 3,5 miliardi di dollari di tasse, continuando ad essere il maggior contribuente della Cina.

 

C’è però un «MA» (inteso come congiunzione avversativa): tutti i rami dell’ecosistema Alibaba sono attaccati al tronco della società madre, l’Alibaba Group Holding Limited, che ha sede nelle Cayman Islands. E quanto paga di tasse? Zero, perché alle Cayman non è previsto nessun tipo di tassazione per le società.

 

Fonte: Corriere della Sera DATAROOM