I marchi patronimici sono molto diffusi, soprattutto nel mondo della moda e nel settore alimentare e vitivinicolo, solitamente rappresentando una soluzione efficace in termini di comunicazione poiché rappresentano il biglietto da visita dell’azienda. E’ comune nel mondo della moda, per esempio, l’utilizzo del proprio nome e cognome, considerato un vero e proprio sinonimo di stile o la testimonianza di una esperienza ed una tradizione familiare.

La legge consente di registrare il nome di una persona come marchio, ma non richiede che i marchi patronimici siano registrati solo ed esclusivamente dal titolare del nome. E’ l’art. 8 del Codice della Proprietà Intellettuale che detta le linee guida per l’utilizzo del nome come proprio marchio, purché l’uso del marchio non leda la fama o il credito o il decoro di chi ha diritto di portare il nome.

Tale principio è stato ribadito peraltro dopo l’entrata in vigore del codice della proprietà intellettuale, ai sensi del D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, all’art. 21, che disciplina, in tema di limitazioni in riferimento all’utilizzo del marchio registrato,  che i diritti di marchio d’impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica, purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale, soprattutto in riferimento alle indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore di un prodotto o della prestazione del servizio.

L’art. 2564 del Codice Civile afferma che “quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla”.

E’ la Suprema Corte che precisa con sentenza n. 6678 del 1987: “qualora due società di capitali inseriscano, nella propria denominazione, lo stesso cognome, il quale assuma per entrambe efficacia identificante, e si verifichi possibilità di confusione, in relazione all’oggetto ed al luogo delle rispettive attività, l’obbligo di apportare integrazioni o modificazioni idonee a differenziare detta denominazione, posto dall’art. 2564 c.c. a carico della società che per seconda abbia usato quella uguale o simile, non trova deroga nella circostanza che detto inserimento sia legittimo e riguardi il cognome di imprenditore individuale la cui impresa sia stata conferita nella società”.

la Cassazione ha stabilito che “Un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio, non può essere di regola adottato, in settori merceologici identici o affini, né come marchio né come denominazione sociale, salvo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione da parte di altri; l’inserimento nella denominazione sociale del patronimico di uno dei soci, coincidente con il nome proprio precedentemente incluso in un marchio registrato da terzi, non è conforme alla correttezza professionale, se non sia giustificato dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti, esigenza non ravvisabile per la sola circostanza che il nome sia patronimico di un socio” (Cass. Sentenza n. 6021 del 2014).

La Corte di Cassazione ha recentemente emesso un interessante sentenza (Cass. civ. Sez. I Sentenza n. 10826 del 2016) sull’uso del patronimico come marchio.  Per quanto riguarda i settori merceologici identici o affini non è più possibile adottare come segno distintivo il proprio nome anagrafico se lo stesso in precedenza è stato validamente registrato come marchio (oltre che come denominazione sociale), salvo il suo impiego limitato secondo i principi di correttezza professionale.

Il caso in esame interessa il noto stilista Elio Fiorucci e le società a lui collegate. Nel 1990, la Fiorucci S.p.A. ha ceduto alle società Edwin Co. Ltd. e Edwin International (Europe) GMBH tutto il proprio patrimonio creativo, inclusi i propri marchi contenenti il nome “Fiorucci”. A seguito della cessione, lo stilista ha poi registrato e utilizzato altri marchi, tra cui “Love Therapy by Elio Fiorucci” e “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci”. I marchi sono stati utilizzati per capi e accessori di abbigliamento, gadget e per operazioni di merchandising e co branding nella vendita di dolcificanti ipocalorici.

Nell’ambito del processo, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto legittimo l’uso del nome anagrafico del designer nei “successivi” marchi (i.e. “Love Therapy by Elio Fiorucci” e  “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci”), sulla considerazione che tale nome esprimeva semplicemente la personalità di Elio Fiorucci, con chiaro intento descrittivo e non distintivo. Secondo la pronuncia della Corte di Appello di Milano, l’espressione “by Elio Fiorucci”, infatti, non aveva altro significato se non quello di manifestare l’apporto personale dello stilista alle attività in questione, il che escludeva ogni possibilità di illecito.

Eugenio Selmi, LL.M. in Food Law